Sfoglio il mio taccuino: “14 aprile. Mi sono presentato al generale Pezzi mentre usciva dal Comando del C.S.I.R.. Il generale mi ha dato appuntamento per l’ora del pranzo al Comando di Aviazione. Il suo ufficio. La sua mensa”. Mi par di rivederlo, diritto in mezzo alla neve, il corpo alto e vigoroso chiuso nella pelliccia di agnello (“Dammi l’abbacchio”, diceva da autentico romano tutte le volte che doveva uscire), la faccia maschia incorniciata dal vamaglio di pelo come appare nell’ultima fotografia: se non avesse avuto la greca sui paramani si sarebbe potuto giudicarlo uno studente volontario. Giovanissimo generale, dell’uomo giovane manifestava la cordialità istintiva, il buon umore (a chi, dopo il primo inverno, domandava notizia del clima in Russia era solito rispondere: “San Remo, tale quale”), la decisione e la franchezza. Ed era difficile presentarsi a lui o rivolgergli la parola senza essere invitato alla sua tavola. Quanti ufficiali arrivati dalle lince, quanti soldati ai quali erano date licenze premio o per motivi di famiglia, non ebbero da lui anche il viatico della mensa generosa e il conforto di una branda? Al comandante dell’ufficio trasporti, il quale spesso imbarazzato mostrava il foglio di carico completo, tutti lo hanno udito domandare: “Comanda di più il parroco o l’arciprete? Ho promesso, tu devi mantenere”.Una famiglia di soldatiPrendeva il foglio, lo esaminava, suggeriva una soluzione che accontentasse tutti. Poi non era raro il caso che, alzandosi dalla scrivania, gettasse il foglio a terra. La immobilità, anche breve, gli riusciva intollerabile. Le missioni numerosissime alle quali ha partecipato, le azione a bordo degli Stukas, l’ultimo volo senza ritorno testimoniano –oltre al suo valore- una attività eccezionale. E tuttavia, nonostante la ripugnanza per le scartoffie e in genere per il lavoro sedentario, anche in ciò era di uno scrupolo che rasentava la pignoleria. Aveva immaginato, è vero, di applicare un “tiraschiaffi” all’uscio del suo ufficio, un congegno di elastici facenti capo a un’assicella destinata alle guance dei visitatori; e detestava il telefono, e non riusciva ad assuefarsi ai nomi convenzionali di città attribuiti ai Comandi che gli davano l’impressione di “stazioni ferroviarie”; e prima di firmare un foglio non sapeva trattenersi dal pronunziare almeno dieci te possino. Ma non una riga usciva dal suo ufficio senza che egli l’avesse veduta e vagliata.Quel 14 aprile mi avvicinai alla sua scrivania per la prima volta. Il generale stava leggendo alcuni biglietti di punizione, e una parte firmava senza indugio, altri invece rileggeva attentamente aggiungendo dal numero dei giorni di punizione quattro o cinque pentolini. Gli domandai il significato di quell’aggiunta. “Vuol dire per intanto –rispose- Si tratta di mancanze alle quali è facile abituarsi, avvertimento al punito”. Poi, senza distrarsi dalle carte: “Siedi, adesso ti faccio portare un vermut. Tu appartieni a un giornale importante, mi sa che devi essere commendatore”. E alla mia risposta negativa: “Bene. A me, mi fecero cavaliere quando ero tenente. Appena mio padre lo seppe mi lasciò andare un ceffone. Adesso si mettono a far cavalieri i subalterni –esclamò indignato.- Ragazzi fila diritto!”.A quel ricordo rideva compiaciuto. Il padre era stato generale, generale il cognato, colonnello il fratello primatista mondiale di altezza (“Pensa a mia madre, povera donna. Non poteva soffrire gli attendenti”); Pezzi era nato, cresciuto, vissuto in mezzo ai militari e di sentimento militare era imbevuto fino all’ossa anche se a un osservatore superficiale poteva sembrare talvolta prepotente, talaltra scanzonato. Una qualunque notizia di servizio bastava a trasfigurarlo. Non era più il compagno, l’amico, ma soltanto il comandante.Lo sa chi s’è seduto alla sua mensa rumorosa (allora il generale consumava i pasti in mezzo ai piloti e ai cacciatori), chi ha sostato nella sua stanza a tarda sera (anche là c’era un telefono)o ha giocato con lui qualche innocente partita di scopone (caro Pezzi che per consolarsi del piccolo smacco, a chi gli soffiava il sette bello diceva: “Tu sei fanatico”). Un avvenimento minimo, un piccolo dubbio rompevano la riunione. Il generale saliva sulla sua macchina e andava al campo.Altre pagine , altre parole brevi: “18 aprile: cena col generale Pezzi; 21 aprile: il generale Pezzi all’officina; 15 maggio: visita al pontieri col gen. Pezzi; 20 maggio: i baffi del sergente, il concorso dei giardini; 21 maggio: il bombardamento di Putilovca”. | Quante volte mi mandò a chiamare, volle vedermi soltanto per il gusto di discorrere, per il piacere di mostrarmi un lavoro ben fatto. Orgoglioso di avere riorganizzato il campo e l’autoreparto, orgogliosissimo di avere impiantato un’officina nella quale si rifacevano anche le eliche, di avere sistemato gli uffici e accantonato gli uomini, non sapeva nascondere la propria soddisfazione. Ma quei minimo di vanteria, a ripensarlo oggi, diventa adempienza; e il gusto di convitare o d’essere convitato (si recava spontaneamente a questo o a quel reparto, amico tra amici), bisogno di fraternità. Le sue burle, certi suoi tratti estrosi, perfino certe fissazioni, veduti a distanza acquistano altro significato.Che cosa poteva indurlo irritarsi per una macchiolina sulla tovaglia o per un bicchiere appannato, oppure a compiacersi di una minestra ben cucinata, se non un concetto di lindura unito alla convinzione che la guerra non deve essere pretesto a far peggio? Bastava guardar lui, la sua divisa sempre irreprensibile con l’iride fiammante di trenta nastrini e le cinque medaglie che parevano un lembo di cielo rimasto attaccato al petto. Si capiva che non potesse ammettere certe stravaganze. Io lo vidi fermare un sergente il quale si era lasciato crescer un paio di baffi alla cinese: “Se non ti fai radere nel pomeriggio ti schiaffo dentro. E ho già pronta la motivazione: - Portava baffi a foggia strana e ridicola dando penoso spettacolo di se”. Lo udii elogiare il suo cuciniere in questi termini: “Oggi la pasta era eccellente. Ti farò caporale”. E assistetti alla sua grande allegrezza il giorno in cui fu concluso il “concorso dei giardini”. Per tutto l’inverno il Comando dell’Aviazione era stato alloggiato in una fila di casupole allineate sulla strada; la prima era occupata dal generale, le altre da tutti gli uffici.Scomparsa la neve, nei piccoli giardini davanti alle case era emerso un luridume che la vista del comandante non poteva sopportare. Bisognava risistemare tutto a dovere, Pezzi comunicò che avrebbe concesso una licenza premio a chi avesse costruito il miglior giardino. In capo a una settimana quell’agglomerato di case assunse la parvenza di un bellissimo villaggio. Viali, vialetti, aiuole, stuole agli ingressi, stecconate dipinte a colori vivaci, panche e panchettine.Pezzi andava di qua e di là sorridendo soddisfatto, e intanto faceva rimuovere anche il brano di terra davanti al suo Comando. Alla fine, essendo venuti a salutarlo quatto ufficiali di altre armi, egli riportò in giro a visitare i giardini, chiese loro quale tra tutti sembrasse il migliore. Il responso fu comunicato a mensa. “Signori ufficiali, - disse Pezzi, - la commissione ha giudicato che il più bel giardino è il mio. Rinunzio alla licenza premio”. Ci fu un po’ de delusione.Allora il generale, che un’ora prima aveva ricevuto in dono mille sigarette pregiate, le fece portare e incominciò a darne un pacchetto a chiunque si avvicinava alla sua tavola. Lui rimase senza. “Io adesso che cosa fumo? – mi disse infatti più tardi, frugando nelle tasche. – Dammi un pacchetto delle tue”.Adempiente, era anche suscettibile. Una certa lettera, nella quale si rilevava che il suo Comando faceva tuttora uso del bollo lineare anziché del bollo tondo (o viceversa), non gli andò giù. “Io adopero i bolli che ho trovato arrivando, - diceva, - in Russia non si fabbricano bolli”. Quell’inerzia lo pungeva, sé ne ricordò tutta la giornata. Verso il tramonto udimmo da lontano il rombo di uno stormo. Fra il comandante e i cacciatori era corsa un’intesa: qualora l’azione fosse stata fruttuosa, gli apparecchi sorvolando il villaggio avrebbero dato due colpi d’ala. Così fecero, infatti, e andammo subito al campo. I caccia arrivavano a uno a uno sulla pista, i piloti circondavano il generale, raccontavano l’azione compiuta. Avevano abbattuto tre apparecchi nemici in un duro combattimento. Un nostro apparecchio appariva tutto sforacchiato, colpito da almeno quindici pallottole,; il pilota illeso. Pezzi era raggiante, mi prese a braccio, mi invitò a sostare davanti a quei buchi: “Il bollo tondo”, mormorò come parlando a se stesso. Se ne ricordò anche più avanti, durante un bombardamento avversario al quale assistette in mezzo al campo. Poiché le schegge arrivavano dappertutto, un suo ufficiale lo invitò a ripararsi. “Bollo tondo o bollo lineare, - rispose- io ho da essere dove cadono le bombe. Mi sento più tranquillo”. | Dopo un'aspra offensivaVennero i giorni di luglio, si andava avanti. Molti foglietti del mio taccuino sono rimasti senza data, ma non c’è parola che non mi riporti l’immagine di lui: “Roba altrui; l’atterraggio a Crasni Luc; Pezzi vuole la fotografia” e via di seguito. Arrivava dovunque, alle ore più incredibili e nei posti più impensati. Sollecito, cortese, alacre sempre. Vedendomi scontento a cagione di un guasto alla macchina che minacciava di lasciarmi indietro, mi prestò un’automobile sua. “Tienila da conto –disse- Vedi quella sigla? (indicava la lettere R. A. della targa). Vuol dire “Roba Altrui”. Aggiunse che sarebbe venuto a riprenderla e invece venne dal cielo, atterrando con una “Cicogna” su un prato di ottanta metri proprio davanti al comando di Messe. Poi ripartì come era venuto obbligando l’apparecchio a scavalcare una casa, impennandolo a pochi metri dal tetto. Da allora ci raggiunse ad ogni tappa. Entrava nell’ufficio del generale Messe, ch’egli amava, seguito da un aviere con un cestello d’uva, un piatto di sogliole portate in volo da Venezia, un giornale della sera avanti. E spesso veniva a bussare alla mia porta, o a quelle di Doglio e di Giarrizzo. Bevevo certo rum che i suoi aviatori ci recavano dalla Romania, ma voleva vedere la bottiglia grande: le mezze bottiglie a lui generoso, davano l’impressione di poco e di miseria. Una volta domandò d’essere fotografato. La sua figlioletta gli aveva scritto chiedendogli una fotografia da far vedere alle compagne. “Dicono –stava scritto nella lettera- che il mio babbo, se è generale, dev’essere vecchio”. E lui: “Fammi bello, fammi giovane. Se la fotografia riesce bene le risponderò che può mostrarla alla maestra”.“25 agosto, sul campo di Millerovo”. Fu la sola volta che mi diede un abbraccio. Erano i giorni dell’aspra offensiva sul fronte del XXXV Corpo e il suo apparecchio giungeva di là. Pezzi si affacciò alla porticina, discese per qualche minuto. Era pallido e sconvolto. Come cinque mesi avanti aveva organizzato il servizio postale, adesso si era sunto di portare con gli aeri disponibili i feriti più gravi al centro ospedaliero arretrato. Pilota tra i piloti, il suo apparecchio entrava nel numero. Attraverso la porticina spalancata si vedevano soldati seduti, o distesi in barella, e giungeva il lezzo della carne martoriata. Per quanti giorni il comandante dell’Aviazione assolse quel compito, lui sano e vitalissimo, vincendo il tormento che gli procurava la vista di tanta sofferenza?Ma più mi commosse qualche tempo dopo sul campo di Carinoscaia. Mentre discorrevamo passò il generale Messe; il quale, senza fermarsi, gli tese la mano, strinse la sua e sorridendo disse: “Addio, Pezzi. Tu sei un soldato”. Allora accadde una cosa stupefacente: gli occhi di Pezzi, rimasto in posizione di attenti, si inumidirono di lacrime. “Sai, - mi disse- per elogiarmi mio padre non conosceva altre parole. Diceva: tu sei un soldato”.Sono le ultime annotate nel mio taccuino. Nei mesi passati, nelle scorse settimane, tutte le volte che ho pensato di scrivergli o immaginato di rivederlo mi ritornava istintivo incominciare: “Caro Enrico, caro Pezzi”. Ma se un giorno, non so come, non so quando, non so “dove”, dovessi ritrovarmi davanti a lui, per quelle lacrime che cancellano ogni altro suo aspetto, due sole parole verrebbero al labbro:”Signor Generale”.* * * |